Galliano Moreale

Chiedere scusa

Fare le scuse ormai sembra una moda in disuso, un’educazione sorpassata, non si fa più, è un atto ormai ritenuto scontato, ma alla fine denota una sorta di barriera fra te e gli altri.
Sembra quasi che chiedere scusa rappresenti un peso, un’onta, una vergogna, un cedere qualcosa e non si sa bene cosa.
Non si chiede più scusa neanche di fronte a visibili errori, neanche di fronte ad un’atroce sofferenza, al disorientamento e al dubbio, quasi che la non intenzionalità di un dato atto ci sottraesse dalle nostre responsabilità, dagli effetti dei nostri atti, che seppur involontari possono essere comunque nocivi e lesivi nei confronti degli altri.
Al di là del fatto che ciò che ci spinge non sono le motivazioni coscienti ma quelle inconsce, è bene ricordare che nonostante i nostri sforzi e le nostre buone intenzioni, c’è sempre la possibilità di poter ferire gli altri, se non altro per la realtà della nostra individualità. Ciò che a noi può sembrare innocente e innocuo, può ferire profondamente la sensibilità di un’altra persona, che ha una storia diversa dalla nostra e un modo tutto suo di vivere, percepire ed interpretare gli eventi.
Di fronte al dolore dell’altro, fisico o psichico che sia, ritengo profondamente umano dire “mi dispiace”, come segno di reale comprensione dello stato dell’altro, segno di interesse verso l’altro. Naturalmente non è sufficente pronunciare una formula vuota, è necessaria una reale comprensione e compartecipazione al sentire di chi ti sta di fronte.
Aggiungere poi “scusa ho sbagliato” diventa un gesto altamente riparativo, che pure spesso, o quasi sempre, ci rifiutiamo di assumere. Siamo talmente trincerati dietro la forza della nostra motivazione conscia, dietro il fatto di aver ragione, di non aver voluto nuocere a nessuno, che ci dimentichiamo le vie sotterranee delle nostre responsabilità, la vastità dell’effetto di ciascuna delle nostre azioni. Ci fermiamo al piano esterno dell’avere ragione, della competizione e della contesa, tralasciando quanto realmente è accaduto, le emozioni in ballo e le persone che vi sono coinvolte.
Dietro questa condotta, s’innesca una profonda sofferenza, solitudine, una vita all’insegna della vendetta e della giustizia a tutti i costi. Chi soffre spesso nasconde il dolore sotto la rabbia, sotto una richiesta di risarcimento (emotivo, morale, giuridico, economico, ecc.), che può durare tutta la vita, all’insegna della rincorsa con qualcosa che non appagherà mai, non sanerà mai la vera origine della sofferenza. Tutto per una parola mancata, che rappresenta un atto mentale, una risposta riparativa e risanante, che riconosce l’altro, gli riconosce la propria posizione e il diritto all’offesa, all’umiliazione, alla sofferenza.
Nonostante questo, nonostante l’enorme importanza dello stare di fronte al nostro interlocutore, di dare peso al suo e al tuo mondo, nel nostro immaginario chi chiede scusa viene identificato con colui che realmente ha torto, con un debole, uno che si fa mettere i piedi in testa da tutti. E allora, è bene non abbassarsi troppo, non far credere di essere dispiaciuti, disponibili, che si hanno buoni sentimenti, altrimenti qualcuno se ne approfitterà. Si crea una sovrapposizione di piani, un conto è chiedere scusa, essere in contatto con l’emotività e la visione dell’altro, un conto è non permettere che ciò porti ad un vantaggio. Anche ci fosse stato un errore, questo non dà comunque diritto di prevaricare l’altro e i suoi diritti. E’ giusto chiedere scusa, non di meno l’errore non fornisce il potere all’altro di uno sconto o di un approfittare.
Lo stesso vale per la parola “grazie”, spesso associata ad una persona debole, indifesa, inconsapevole e può condurre ad arrogare dei diritti o a comportarsi come maestri o padroni della situazione.

Giustizia, abbiamo tutti bisogno di giustizia, vogliamo sapere che la ragione è dalla nostra, non abbiamo niente da dare a nessuno, come se l’attribuzione di una qualche responsabilità comportasse chissà quale dovere, chissà quale coinvolgimento ed impegno, chissà quale privazione. Infatti, non sappiamo più affrontare le questioni della vita quotidiana, se non litigando, se non ricorrendo ad un legale, alla denuncia, alla minaccia, allo scontro bruto, di parole, di atti, di usurpazioni, di violenza, di colpi intellettuali, di cavilli legali. Non sappiamo più venirci incontro, confrontarci, scontrarci, andando al centro della relazione stessa.
Qualunque errore o difetto, costituisce un’occasione per chiedere uno sconto, un potere, un favore, una posizione di comodo. Quasi dovessimo a tutti i costi stabilire un suddito ed un dominatore, non sappiamo più neanche competere in modo onesto e rispettoso.
Chi sta al “potere” ha la responsabilità ed il ruolo di decidere, di avere un peso sulla progettazione (di vita, professionale, scolastica, ecc.), ma deve tener conto dell’altro come persona che ha delle proprie emozioni ed un proprio pensiero, non unicamente come qualcuno che deve assolvere un compito, ma come persona totale.
La credibilità non risiede nella perfezione, ma nella coerenza fra ciò che si dice e ciò che si attua agendo, come quando si desidera insegnare che per imparare a fare le cose è necessario avere la pazienza di fare esperienza, la costanza di esercitarci in ciò che non ci riesce, la voglia di capire e di cambiare. In questo, sono compresi gli errori ed i cambiamenti di rotta. Non accettare anche per sé stessi questa realtà, insegna che a parole si dicono delle cose ma a fatti nessuno vuol sbagliare, nessuno vuol riconoscere gli errori e vuol veramente capire gli effetti dei propri errori, su di sé e sugli altri. Il più grande insegnamento che un genitore può passare ad un figlio è proprio l’esempio diretto di errori, visti, riconosciuti, trasformati, mostrare quindi che gli errori sono occasione di cambiamento e di relazioni umanamente alla pari, non in perdita, non sconfitte. Solamente così i figli impareranno che è veramente naturale sbagliare e che se ne deve tenerne conto, usando l’errore per incontrare noi stessi e gli altri in modo più ottimale.

Facciamo un esempio considerando il rapporto sanitario tra operatore e utente/paziente. Partiamo dal forte sbilancio che caratterizza la relazione, sia in termini di sapere sullo specifico ambito, sia in termini emotivi. Il paziente si trova in uno stato di sofferenza e l’operatore per formazione, competenza, esperienza, può lenire, può intervenire, quindi viene ancor più innalzato fino ad essere talvolta idealizzato, possedendo un ascendente fuori misura sul paziente. Ma se guardiamo l’attività pratica (assistenziale, sociale, logopedica, ecc.), essa s’inquadra in una crescente presa di responsabilità dell’utente/paziente rispetto a sé, in un’ottica di prevenzione (primaria, secondaria e terziaria), di riabilitazione e cura. Se svalutiamo qualunque sensazione, ipotesi o autonomia del paziente, imponendo sempre e comunque la preconcetta idea di assistenza, misconoscendo l’importanza delle informazioni che giungono dalla persona in assistenza e negando qualunque fraintendimento, non comprensione o errore, allora remiamo contro l’impostazione teorica e l’obiettivo che ci siamo prefissati. Rafforziamo prepotentemente l’idea che il paziente debba accettare passivamente qualunque ipotesi, qualunque accertamento e proposta, senza metterci nei suoi panni, cercando di comprenderne vissuto ed esperienze rispetto a quanto gli viene proposto.
Anche in questo caso si rafforza a tutti i costi l’idea di uno, nella relazione due, ché è in vantaggio rispetto all’altro in termini di conoscenza, potere, capacità decisionale. A parole si privilegia la relazione, lo scambio, la reciproca responsabilità, nei fatti si pretende un’accettazione incondizionata di quanto proponiamo, giusto o sbagliato che sia per quella specifica persona.
Si tratta della profonda negazione della presenza/essenza dell’altro, in quanto essere pensante con uguali diritti e doveri, ma anche negazione di noi stessi, dei nostri errori, della nostra fragilità e del nostro bisogno di crescere, confrontandoci con gli altri.
Se vede quindi come un semplice gesto mancato, il rifiuto di pronunciare una parola “scusa” con il seguito o il prodromo “mi dispiace”, rappresenti molto più di quanto mostri in apparenza. Non sono le motivazioni esplicite che fanno la differenza, ma quelle implicite e inconsapevoli, che conducono al rifiuto e alla negazione della propria responsabilità, posizione, emozione, condivisione, ecc.
Del resto, ogni azione e mancata azione possiede un’importanza relativa, rispetto a quanto si muove sotto, alle ragione di quel fare, alle emozioni, alle pulsioni, ai desideri sottostanti, che esplicitano molto di più di quella persona e della sua storia.
“Scusi, ho sbagliato, mi dispiace” dunque, ci permetterà di incontrare noi stessi e gli altri, tutti gli altri. Parimenti la parola “grazie” ha lo stesso peso e lo stesso andamento.
Non vergognamoci nel dire “grazie”, non v’è debolezza né sudditanza, ma semplicemente abbondanza e riconoscimento all’altro per la sua presenza e per la relazione. Si tratta di un cambiamento in miglioramento del nostro stare.