Galliano Moreale

Pensioni

Bene, tenetevi pronti: parliamo di pensioni.
La storia delle pensioni, in Italia, inizia alla fine dell’800, si aggiorna nel primo ventennio del ‘900 ma inizia ad andare a regime nel primo dopoguerra, verso la metà del secolo scorso.
Retributivo o contributivo il meccanismo di accumulo del capitale necessario a provvedere alla vita (dignitosa) del lavoratore “dismesso” dal ciclo produttivo, non ha smesso di sortire discussioni.
Senza voler in alcun modo addentrarmi ora in polemiche o tabelle o conteggi, espongo le mie considerazioni. Alcuni cittadini hanno, ragionevolmente considerato come “… la prima idea del sussidio all’anziano venne pensato come un contributo per chi raggiunge un età’ da non poter più lavorare, e questo vale per tutti sia un industriale che un semplice manovale perché quando si è arrivati ad una certa età’ si è tutti uguali...”.
Divide et impera è viceversa il motto collante del nostro sistema pensionistico. Una miriade di casse private, con aliquote contributive diverse e privilegi mirati, una cascata di gestioni gestite dall’INPS in maniera settoriale con riscossione (anche coatta) affidata ad agenti esterni (Equitalia), un guazzabuglio di estorsioni, favoritismi, inefficienze, per non parlare di baby pensioni, pensioni a rappresentanti politici (di ogni ordine e grado), pensioni d’oro, ecc.
Anche l’ultimo, in ordine temporale, presidente dell’INPS, dott. Boeri Tito ha avuto la percezione che qualche cosa non funzioni per il meglio nell’ente statale erogatore del maggior numero di rendite, da lui stesso diretto: diciamo quindi che è ora che si proceda ad una civile, equa ma completa, rivoluzione.
Partiamo da un primo semplice concetto. Ce lo hanno insegnato a scuola, quando ancora si insegnava la geografia, la religione e l’educazione civica: tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge. Sia essa umana che divina.
Hoibò e perché mai tale precetto è assente nei manuali di assemblamento di un sistema pensionistico?
Cominciamo da questo: una unica Cassa pensioni, gestita da un solo Ente Pensionistico. Via tutte le altre casse e forme pensionistiche private.
Accorpamento? Fagocitazione? No, la chiamerei “fusione per incorporazione”.
Partiamo da un secondo concetto, molto, molto meno semplice: diritti acquisiti.
Cosa sono i “diritti acquisiti”. Ognuno di noi ha una sua propria e personale opinione su cosa essi siano. Ma volendo usare una bilancia che, salomonicamente, distingua il diritto dalla pretesa, su un piatto dovremmo mettere ciò che ciascuno ha “versato” e sull’altro piatto quanto gli viene “retrocesso”. Tutto il superfluo è un plus riconosciuto da una qualche legislazione, revocabile, da non confondersi con il diritto acquisito.
Ora puntiamo sul terzo concetto: tetti pensionistici.
Su questo fronte si gioca una buona parte della partita. Il mio modo di vedere, un po’ draconiano (lo ammetto), è questo: una persona che smetta di lavorare ad una età compresa tra i 65 e i 72 anni, è una persona “anziana”, alla quale per vivere una pensione di € 3.000, al massimo, è più che sufficiente.
Mille, duemila, tremila euro, con eventuali importi intermedi dovrebbero essere i tetti pensionistici. Per tutti: Capo dello Stato, Presidente Corte Costituzionale, Magistrati, Generali, Manovali, Massaie, Impiegati, Operai, ecc. sulla base di quanto versato (sistema contributivo). Tanto per snocciolare, adesso è ora, qualche numero: un artigiano che versi per 42 anni € 3.000 all’anno sulla propria posizione contributiva avrà accumulato € 126.000, in linea capitale, più € 72.000 di interessi (al 2,5%), sufficienti cioè a garantirgli una pensione da € 1.000 al mese per 28 anni (!) corrispondenti ad una cifra anagrafica finale di erogazione compresa tra i 93 ed i 100 anni.
Se egli avesse versato € 6.000 all’anno, ovviamente, avrebbe maturato una pensione da € 2.000, sempre per 28 anni, ecc.
Ma avete idea di quanto risparmierebbero i datori di lavoro e i lavoratori autonomi senza arrecare danno alcuno al nuovo Ente Unico di Previdenza?
Con una contribuzione annua fissa si potrebbe slegare il concetto di contribuzione a quello del periodo lavorativo, che diverrà una zavorra altamente penalizzante per le giovani generazioni, le quali potranno vantare un curriculum contributivo zeppo di buchi, vouchers, co.co.pro, gestioni separate e casse di previdenza private. Manca un periodo contributivo? Chessò sei mesi nel 2005? Verso i 1.500 euro (più gli interessi) adesso nel 2016. Voilà, buco tappato.

Semplice, lineare, uguale per tutti.

Sbloccheremmo cifre importanti destinandole, presumibilmente, al consumo.
Elimineremmo sperequazioni, come quella che affligge gli agenti e rappresentanti di commercio che debbono soggiacere ad un doppio prelievo previdenziale.
Potremmo risolvere agevolmente situazioni critiche come quelle relative ai così detti, contributi silenti, quelli versati obbligatoriamente ma che non hanno maturato il diritto ad alcuna prestazione: in alternativa alla restituzione si potrebbe prevedere l’accreditamento ad altro familiare (es. moglie e marito o padre premorto e figlio).
Se poi il sig. Notaio, o il sig. Industriale, o il sig. Magistrato o la sig.ra Massaia volessero godere di una maggiore pensione potrebbero sempre “acquisire dei diritti inalienabili” versando ulteriori somme, di tasca propria.
Nulla osta.