Galliano Moreale

Turindan (Turindo)

(capitolo del racconto "KURT")
Quel mattino il dottor Kurt arrivò presto in studio. Fece colazione con due uova sode, che aveva avuto dalla Signora Erta, quella che governava gli animali del cortile e che era così premurosa nei suoi confronti, poi si tuffò nella lettura del bollettino della Contea (nascite, morti, qualche episodio di cronaca maldestramente riportato), quindi trasse dal cassetto della scrivania in palissandro dei fogli rilegati. La prima pagina riportava il titolo “Historia Ridicula y Tragica di Chiminaus, malo hombre de la Contea di Cussignà
La storia che il dottor Kurt stava scrivendo, da anni ormai, era un trattato un po’ filosofico un po’ comico ed in parte anche d‘introspezione psicoanalitica ispirato alla tragicomica figura di un povero cristo della Contea, tale Chiminaus omone che si aggirava candido e ingenuo tra la folla dei biechi ed aspri agricoltori pronunciando insensate parole inerenti rapporti sessuali, esagerati, improbabili, presunti tra lui medesimo e la propria compagna. Uno spettacolo reso ancor più penoso dall’età avanzata dell’uomo, dalla stentorea voce colla quale strepitava le proprie “prodezze” nonché dal disdicevole ridicolo del quale egli si circondava essendone tuttavia inconsapevole. Ma ben presto, quella mattina, l’ispirazione s’affievolì e il manoscritto venne tosto riposto nel cassetto della bella scrivania. Il dottor Kurt s’accinse quindi suo malgrado ad occuparsi di faccende più pertinenti la propria professione. Rivisitò, completò ed infine quindi concluse la cartella clinica di quell’ufficiale, borioso ed arrogante, che si era fatto visitare la sera prima. Come si chiamava? Lo sguardo si perse nel vuoto. Non riusciva a mettere a fuoco il volto. Riguardò la copertina della cartella: L.L.. Ma non riusciva a visualizzarlo. Passò una mano sulla fronte. Si scosse. Andò alla finestra. Il solito brusio andava crescendo d’intensità. Gettò lo sgardo tra la folla, così per fare. Riconobbe un volto. Sorrideva con l’eterna sigaretta tra le dita, il corpo buttato sulla colonna della polleria. Era Turindan

Il dottor Kurt era allora poco più che adolescente quando conobbe Turindan: l’incontro avvenne nella falegnameria del fratello. Turindan aveva all’epoca una trentina d’anni circa già mal portati: il naso schiacciato su un volto appuntito ed irregolare, occhi azzurri quasi trasparenti, la bocca grande i denti gialli e radi, la barba di alcuni giorni, pochi capelli rossastri disordinati sulla fronte. Era d’estate e lavorava a torso nudo: un petto indicibilmente villoso aveva catturato un numero considerevole di trucioli. Beveva decine di caffè al giorno, fumava puzzolenti sigarette che arrotolava mettendoci poco tabacco e parecchia saliva, talchè si consumassero più lentamente. Parlava tuttavia con una spasmodica ricerca di completezza e correttezza, assolutamente insolita in personaggi di così bassa estrazione sociale. Con la moglie Darinkè, una lentigginosa donna di origine slava, occupava un fatiscente tugurio di poche stanze, dal soffitto basso e muri neroverdi d’umidità ove trovava posto una inaspettata libreria ricolma di libri, dalle pagine anch’esse ritorte dall’umidità, di scrittori russi e di politici anarchici. Turindan non era un falegname. Occupava le giornate e si procurava il necessario per sopravvivere a malapena, aiutando il fratello e spennando a carte qualche pollo al bar “dalla Franca”. Turindan aspettava. Paziente, senza dar segni di insofferenza o cedimento, senza farsi coinvolgere dalle isterie o dalle sirene femminili, senza dar conto ai rimbotti ingenerosi dei conoscenti: dritto ed affilato come una lama controvento. Ed il vento non era un venticello: era un turbine, una tempesta. Passarono degli anni senza che nulla scalfisse la sua pidocchiosa ed ostentata miseria. Riponeva persino i fiammiferi usati nella scatola originaria, erano quelli che allora si chiamavano “svedesi“ che stavano racchiusi in una scatola di ruvida carta verdognola e una parte abrasiva come carta vetrata sul davanti, per l’accensione. Talvolta il fiammifero usato non era del tutto spento e così l’intera scatola prendeva di botto fuoco, nella tasca del calzone ove era stata risposta, e allora Turindan saltava in piedi all’improvviso bestemmiando mentre con una mano scagliava lontano la palla di fuoco prossima ormai a ghermigli parti intime, e tutti all’osteria ridevano, anche Turindan ne rideva.
Negli anni passati aveva condotto discrete battaglie, quando lavorava da bracciante nella maggiore fazenda agricola della regione, per migliori salari e per introdurre dispositivi legali che avessero una maggiore attenzione alla salute dei lavoratori. Non appena la Proprietà se ne era resa conto e l’aveva individuato era stato licenziato con biasimo e lettera a tutte le consociate affinché il criminale fosse lasciato languire, ai polsi i ceppi della miseria. Soliderietà ne ebbe poca. Ma il rispetto che la sua persona seppe acquisire crebbe, di giorno in giorno, nell’affrontare quella povertà, malgrado le suppliche, invero solo tra mura intime, della moglie che l’invitava in nome del loro amore a riconquistarsi una dura ma onesta, dignitosa vita, comune agli altri lavoratori, ed i rimbrotti sussurrati dai conoscenti cattolici ed anche dagli anarchici, che non condividevano certo una scelta di tal fatta. Subìto il licenziamento Turindan scovò in città un avvocato che lo difendesse e quindi, venduti due campi ereditati, ed impegnata la dote della moglie al Monte di Pietà, fece causa alla Proprietà che l’aveva licenziato. Fu uno scandalo. Un uomo, solo, contro la Proprietà. Un anarchico che si affidava allo Stato, pergiunta!. Ma la Giustizia sapeva come procedere: tempi lunghi, lunghissimi. Molti ne erano sfiancati, molti avvocati perivano per vecchiaia durante il percorso della causa e così altrettanti “attori” del processo. L’Avvocato di Turindan era invece giovane ed agguerrito ed il padre, si diceva, che fosse stato una camicia rossa al fianco di Garibaldi il quale, si diceva ancora, che avesse addirittura scritto una lettera a favore della causa di Turindan. Molti anni trascorsero in molti “si sa nulla della causa?” e “non abbiamo notizie ancora”. E tutti quegli uomini avrebbero ceduto, ed avrebbero cercato un altro lavoro col quale sfamare la famiglia, che nel frattempo era cresciuta con l’arrivo del figlio Ingort. Perchè questa era la chiave di volta dell’intera causa: Turindan s’era impuntato d’essere riassunto ed aveva fatto solenne impegno d’innanzi al giudice di non trovare altro lavoro sino al momento della sentenza, a pena della soccombenza in giudizio. Decise così con lucida follia, che attraversò a piedi nudi, silente, flagellato, ma con la schiena diritta e lo sguardo fiero, un pò bieco ma fiero, “frangar, non flectar” (“mi spezzo ma non mi piego”).
Una giornata soleggiata e fresca di metà aprile le campane d’improvviso iniziarono a suonare a distesa, un vociare dalla strada sempre più intenso, un intrecciarsi di grida e urla e canti, ma uno, un solo motto era comprensibile: “Turindan ha vinto! Turindan ha vinto!” salivano alte e festose le voci .
Persino il parroco volle festeggiare quella che egli considerò evangelicamente una vittoria del cuore, dunque della fede, del credere senza motivo, sulla fredda ragione fosse di Stato o del Codice. La Proprietà temette l’improvviso emergere di altri Turindan e così tentò di blandìrlo riconoscendogli un vitalizio, congruo per compensare gli anni di sofferenza trascorsi, da lui e famiglia, e per riempirgli la pancia per gli anni a venire, sperando di arruolarlo nei ranghi di una borghesia placida e antirivoluzionaria. Avrebbe funzionato con chiunque,. e certo nessuno nella Contea avrebbe biasimato
Turindan se avesse accettato l‘incarico di Capo Guardiano della Stalla del Conte di Wainsen-Fellers.
Turindan fece una scelta di cuore: non accettò. Ciò che la Proprietà temeva si verificò: la voce si sparse, i “Turindan” fertilmente, rapidamente proliferarono.
Il Conte di Wainsen-Fellers non la prese bene: maltrattò i propri sottoposti, incapaci di ridurre alla ragione un Turindan qualunque. Già sentiva i commenti degli altri della Proprietà sulla sua debolezza di polso e incapacità e inadeguatezza, come se di botto un Impero potesse sbriciolarsi sotto i colpi di qualche cialtrone, umile campagnolo, seppur evidentemente dotato di una qualche capacità, ma quando mai si era vista una storia del genere. E’ palese quindi il movente per cui scagliò nel caminetto ardente, con inconsueto furore misto a paura e senza proferir parole, il libro che gli venne recapitato il giorno seguente da una sua conoscente, anch’essa membro della Santa Congrega della Proprietà, il cui titolo era “Spartacus”. Al solo pensiero degli sconquassi che un fiero schiavo aveva provocato, sin quasi a causare il tracollo di Roma, gli si gelava il sangue. Ma no, si rincuorava specchiandosi nel generoso bicchiere di cognac, Turindan non era cetto Spartacus. Tuttavia fu quando andò al confessionale, per chiedere conforto al membro della congrega più vicino a Nostro Signore, che le sue membra ed anche le sue viscere rimasero più sconvolte. Una volta terminati i convenevoli, con il bicchiere di rosolio colmo in mano, il prelato, bruscamente e senza mezzi termini chiese: “Lei Signor Conte certo ricorda le tristi vicende napoletane del Luglio 1647 vero? La Sua memoria non trascura il nome di Tommaso Aniello d’Amalfi detto ‘il Masaniello‘?”.
Turindan invece accolse le richieste della famiglia e si ritirò oltre i confini della Contea in territori amici. Non era un falegname di Galilea, non un predicatore, non un arringapopoli: era solo un uomo che diede ascolto al suo grande cuore. O che cedette al proprio smisurato orgoglio. Ma l’orgoglio senza un cuore non è nulla, è come una barca in mezzo al mare ventoso, con alberi e buona carena e marinai esperti, adeguate carte nautiche e strumenti di rilevazione e corde, e riserve di cibo e acqua e chinino ... ma senza vele. Così l’orgoglio senza cuore, così il cuore languido, senza orgoglio.
“Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” scriveva Blaise Pascal all’epoca di Masaniello, e ripeteva il dott.Kurt tra se prima che, posata la penna, il suo cuore, per ragioni che egli non conobbe, l’abbandonasse prematuramente