Galliano Moreale

Verso Berlino finale Champions Barcellona - Juventus

Sono in ansia e voi non potete certo saperne il perché. Si possono cercare motivi, che di certo non mancano, nel menagé familiare. Ma non è questo. Sono in ansia non come quando si attende la nascita del figlio. Ne ho avuti due ed uno l’ho visto proprio uscire, tutto viola, dalle visceri della madre. Sono in questo penoso stato d’attesa, che cerco d’esorcizzare e blandire raccogliendo pronostici come cornetti napoletani, per verificare ancora se le più elevate congiunzioni astrali, una volta mas, provocheranno il verificarsi, al trillo di chiusura, dell’esatto risultato generato dalla breriana dea Eupalla e dalla stessa scritta sull’acqua. Allora l’ansia si sfarinerà le aspettative saranno puntualmente rispettate o, diversamente, essa si sarà fatta angoscia.
Così tanto s’investe di se stessi, della propria anima, in così poco, un incontro di futbol, se questo non fosse che il riflesso di un universo.
Poi l’ansia svanirà, forse, sabato notte, quale che sia il risultato, la tensione calerà per poi risalire, come onda.
Chissà.
Vedrò la finale di Berlino, il prossimo sabato 6 giugno, anche se questa trasgressione, questa ubriacatura, sbracatura calcistica mi costerà, minimo minimo un cartellino giallo/amarillo da mia moglie, che il calcio non lo ama, non lo capisce, percepisce, le è molesto come qualcosa di insensato che non si deve fare, che svilisce, che appiattisce i ruoli sociali, che ci rincitrulliamo davanti al televisore mentre trasmette i movimenti, frenetici e convulsi, di indecifrabili omini su un fondo verde. La vedrò ugualmente la finale, questa finale, non ho ancora deciso dove. Forse foresto in un qualche bar dallo schermo generoso, la mia solita collaudata maschera imperturbabile, l’indecifrabile immobilità muscolare: solo all’interno sventolano folli le bandiere e battono forte i tamburi. So che non la vedrò da amici. L’ultima volta si celebrava un trionfo sin troppo facile alla fine del primo tempo, ma gravi presagi sottovalutammo: tre e più bottiglie di vini finite anzitempo nel lavello per aver ucciso col sughero il contenuto, pure una di vino leggero e frizzante, che dalle nostre parti si ama poco e che non avrebbe dovuto, per sua naturalezza incorrere in tale disgrazia.
Il portiere brasiliano della squadra tifata dal padrone di casa si trovò impreparato al tifone che si scatenò intorno a lui nel secondo tempo, e neppure i compagni più fieri e blasonati seppero fargli adeguato scudo: fu un naufragio, una caduta agli inferi. Non ci trovammo più per finali anche per scaramanzia. Il ricordo è ancora dolente.
“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
Se Montale avesse potuto dedicare questa formula poetica a chi detiene il potere di reggere le redini mentali, psichiche, di questo incontro, costui prendendone italianamente spunto, avrebbe disposto: nessuna formula, 4-4-2, 4-3-3, 3-4-2-1 ma il massimo catenaccio e ficcante contropiede. Non vinse forse così, l’ultima vez fanfaron Mourinho, sacrificando purosangue arabi a terzinacci? E seppure sarà successo bianconero, inaspettato, incredibile, monstre, si stappino bottiglie e si levino alti i calici, al diavolo se lo spettacolo calcistico sia abortito sull’altare del successo. Pochi muscoli facciali tradirebbero le mie vere emozioni. Complimenti e pacche sulle spalle, e l’avevo detto io, e purché sia italiana lo siamo tutti, viva Giuve. Ma non sarà così nell’intimo. Perché a dispetto dell’origine o forse proprio assecondandola, viene prima il Barca di una gobbosa italianità. Perché io sono orgogliosamente friulano e vorrei che noi fossimo come la Catalogna, non come il Piemonte. Con la stessa radicata identità territoriale, e la nostra lingua, i nostri vini, i nostri scrittori, artisti e pallonieri, pochi, ma che hanno fatto grande il calcio da Grezar a Bearzot a Zoff a Collovati e Capello e chiedo perdono per tutti quelli che dimentico. Sono stato a Madrid e sono stato a Barcellona. La prima è imponente, statuaria, sorride un po’ solamente nel quartiere asburgico che non si capisce perché a Madrid abbiano delle case con il tetto come in Austria, per la neve. Pensi a architetti, pigri, indolenti e rigidi e sorridi. La seconda invece ti apre il cuore perché è pulsante, tutto e di più e nel ventre ha gemma vibrante scommessa titanica, che mi ha fatto da sempre innamorare di lei: costruire una cattedrale la cui lavorazione vada oltre la vita umana, la Sagrada Familia questa incredibile espressione di potente visione onirica e di fede nell’essere umano; è Barcellona, è la città che trova la sua direzione nell’indice teso di un italiano che la guida, cada dia, dal privilegiato posto di comando, il mirador de Colom. Non può esserci partita, confronto ma solo una finale, a Berlino, tra pochi giorni. Una “secca” come si dice: chi vince ride e chi perde piange. Mi fingerò soddisfatto o contrito e deluso, non esulterò esteriormente, comunque. Forse non lo sai ma anche questo è amore, direbbe Vecchioni, ed il cuore blaugrana sconterà silente anche il muliere cartellino giallo.