I daltonismo (nome scientifico: discromatopsia) è un’anomalia nella percezione del colore. Il disturbo più comune consiste nella difficoltà di distinguere il rosso dal verde. Più rari sono la tritanopia, cioè l’incapacità di vedere il blu, e l’acromatopia, o cecità ai colori. I colori vengono percepiti da cellule specializzate della retina, chiamate coni: ce ne sono tre diversi tipi, sensibili rispettivamente alla luce blu, verde, e rosso-gialla. Quando uno o più tipi di coni sono difettosi, la percezione del colore è alterata.
Il daltonismo è un difetto genetico e colpisce l’8 per cento degli uomini e solo lo 0,5 per cento circa delle donne. Sia il daltonismo congenito che le deficienze visive cromatiche ereditarie, sono causate da un difetto genetico. ll difetto di visione cromatica più comune è la visione limitata blu-giallo. Succede spesso a causa di una degenerazione maculare. Le persone che non sono in grado di percepire determinati colori fin dalla nascita, o che vedono male i colori, spesso non se ne rendono conto, riconoscono il problema solo quando l'ambiente circostante glielo fa notare.
Fin qui la spiegazione scientifica del fenomeno fisico. Un’anomalia che dal 1794 ha preso il nome del chimico inglese John Dalton, che fu il primo a descrivere il disturbo di cui egli stesso soffriva.
I tifosi (?) laziali, che impiccano di fronte al Colosseo dei manichini vestiti con le maglie della Roma, ritengono che il gesto vada visto come un semplice sfottò e pertanto non ritengono di scusarsi. I tifosi (?) juventini, che hanno tracciato scritte atte ad offendere il Grande Torino, in vista del derby, probabilmente ritengono che sia normale dialettica calcistica. Queste persone ritengo che siano affette da
“daltonismo sociale”. Se fino dalla nascita della coscienza critica alcune situazioni sociali vengono codificate quali fonti della natura, cioè dall’espressione estrema e più incontaminata dell’essenza umana, ed abbinate a aggettivazioni positivo/negativo (questo si chiama “rosso” mentre questo si chiama “verde”), il soggetto non sarà più in grado, in una fase seguente della propria esistenza, di discernere diversamente. Il bambino vede in TV i buoni contro i cattivi. Alla fine i buoni vincono. Ma perché i cattivi, anziché essere buoni (e vincere) sono cattivi? Cos’è che li determina ad esserlo? C’è un gap genetico? Il bambino non conosce ancora le teorie di Lombroso (Verona 1835 Torino 1905 “ …i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale”). Trattasi appunto di daltonismo sociale quando la nostra visione del mondo, dello spazio, dei rapporti sociali, sia gravemente influenzata dal nostro peculiare “essere”, dal nostro irrimediabile ed irrinunciabile status propri, malattia sociale che si riflette nel branco, che è un gruppo di mammiferi che si riuniscono spontaneamente ed operano in modo omogeneo. C’è chi ha scritto pagine pregne di sofferte riflessioni sul fondamentale principio dell’eguale rispetto. Pagine che vorrebbero essere architrave a sostegno della democratica convivenza, pagine che si interrogano, si contorcono, inevitabilmente, in quando eludono la domanda fondamentale: eguale rispetto a cosa?
La condivisa ed pianamente accettata visione del mondo traballa quando viene meno il cardine aureo che la sostiene: siamo tutti eguali.
E se invece fossimo, com’è più responsabilmente ed anche irrimediabilmente probabile, tutti diversi? I calciatori sono talmente diversi che, oltre ad avere un numero diseguale sulla maglia, hanno perfino dei compiti distinti e delle zone diverse da occupare, ed uno di essi è ancora più diverso degli altri venti che pascolano sul campo da gioco da trovare un suo omologo solamente nella squadra avversaria. E’ il rispetto che dovremmo portare agli altri la qualità che andrebbe affinata ed elevata, sino a raggiungere lo stesso grado ed intensità di quello che generosamente riconosciamo a noi stessi. Ed allo stesso modo dovremmo estendere agli altri, ribaltando l’attuale sconcertante tendenza, l’assoluzione che rivendichiamo nell’accollandoci il ruolo di vittime, andando a riprenderci la capacità di “assumere responsabilmente la propria difficoltà a vivere” (Nietzsche), facendo quindi della assoluta diversità individuale, che balzerebbe così ai nostri occhi, una ricchezza alla quale attingere, anziché una minaccia dalla quale scompostamente difendersi. Impareremmo ad apprezzare anche i meriti e le capacità dei nostri avversari, saremmo tifosi maturi, appassionati inguaribili di un gioco, dimentichi di manichini impiccati, scritte oscene, daspo e quant’altro.