Galliano Moreale

Il giorno in cui incontrai Enrico Berlinguer

Avevo all’epoca diciannove anni. Ero diventato maggiorenne nel 1975, da quando la maggiore età venne abbassata da 21 a 18 anni. Avevo finito le scuole superiori, mi ero diplomato in ragioneria all’Istituto Tecnico Commerciale “A.Zanon” l’anno prima ed ora stavo, blandamente, svolgendo il servizio militare nel corpo dei Vigili del Fuoco. Allora ero segretario della sezione della località di Cussignacco della FGCI, che nulla ha a che vedere con il football, essendo (stata) la Federazione dei Giovini Comunisti Italiani. Governavo un modesto numero di aderenti, sei o sette, grazie alla dotazione di un discreto tavolo da ping-pong nella sala della sezione, tavolo da gioco che diventava utilissimo tavolone, durante le ricorrenti ed estenuanti, fumose in vari sensi, riunioni dei maturi e numerosi comunisti locali. Trascorrevamo le domeniche mattina suonando i campanelli delle abitazioni per vendere copie de ”l’Unità”. Chilometri di campanelli per decine di copie. Giocava con me interminabili sfide a ping-pong, avendo spesso la meglio, Gianni figlio di Gino, il Responsabile Amministrativo udinese del PCI, quando ancora la sede era nello storico, scuro imponente e bellissimo palazzo di Viale Duodo. Quando gli scricchiolanti pavimenti erano in palchet, il PCI era il PCI, quando la sede nazionale era in via delle Botteghe Oscure, e i dirigenti come Gino a me sembravano dei sovietici italiani. Sovietici nell’incrollabile granitica certezza di essere al servizio delle masse che vedranno, anche grazie a loro, o soprattutto grazie a loro, sorgere il sole dell’avvenire, ma russi permeati da po’ di italica indolenza. Che non sempre affiorava.
Quel sedici di giugno, bel sole, Senior mandò Junior a prendermi a casa con una consegna da svolgere. Dovevamo recarci al Palazzo dello Sport, intitolato ad un mito del fascio, Primo Carnera, per stendere le sedute in legno sul campo da gioco, atteso che la sera ci sarebbe stato il comizio del compagno Segretario del Partito. Il lavoro fu lungo e faticoso e non lo svolgemmo in molti, ma giunse alla conclusione con la puntualità attesa.
Arrivò sul posto per il sopralluogo il padre-funzionario, il quale, espresse frugali frasi di compiacimento, ci assegnò a nuove mansioni: servizio d’ordine.
Ora v’è da considerare che erano anni di tensioni sociali abbastanza marcate, seppure nella periferia est del Paese, ove eravamo, si percepissero con minore intensità, comunque noi eravamo solo due ragazzetti, il Gianni di un anno più vecchio. Ma non tentennammo, stringemmo al braccio la fascia di stoffa colorata che ci identificava quali membri del servizio d’ordine e ci posizionammo ai posti convenuti. Eravamo certi che la maggior parte degli astanti, essendo “compagni”, non avrebbe creato alcuna difficoltà ma che anzi, esprimendo “il meglio della società”, avrebbero senza dubbio facilitato, in qualsiasi evenienza, il nostro compito. Resistetti senza cedere agli sbadigli al comizio del Segretario del Maggior Partito Comunista Occidentale. Anzi, con l’occasione, sperimentai la tecnica dei “cassetti”, quella che consiste nell’isolare un concetto, dal flusso delle frasi, racchiuderlo in un cassetto mentale, isolarlo, per poterlo riprendere e ritrovare nitido e comprensibile. Funzionò, funziona tuttora.
Infine fu in un tripudio di applausi & pugni alzati & bandiere sventolanti, sulle note e le profetiche frasi di “bandiera rossa la trionferà evviva il comunismo e la libertà” che il comizio si concluse. Gianni ed io, un po’ preoccupati, vedemmo il Gino dirigersi verso di noi. Naturalmente ci chiese di dare un po’ una mano a “sbaraccare” e poi di andare all’Hotel Astoria, in centro a Udine, dove avrebbe pernottato il Segretario, per fargli “la notte”. Mi rendo conto solo ora, che allora, senza cellulari, non avvisai nessuno a casa della mia prolungata assenza e neppure del suo imminente protrarsi, e a dire il vero nessuno in seguito se ne lamentò o, forse, accorse.
Gianni parcheggio la sua fiatcinquecentogialla in piazza XX Settembre. Alla reception, senza la minima incertezza, sostenemmo di essere “il servizio” di sicurezza del Segretario del PCI. Dalla reception non vennero obiezioni: ci fecero salire al piano superiore ove un breve corridoio, arredato con due divanetti, conduceva alla stanza del Segretario e lui, mentre noi toglievamo le sedie dal linoleum del Carnera, era già in camera.
Così, protetto da Gianni e da me, il capo del più grande partito Comunista d’Occidente, quello che aveva già seriamente rischiato la morte in un attentato in Bulgaria, serenamente fumò la sua ultima Turmac e si addormentò.
Solo verso la mezzanotte fummo raggiunti da due compagni della sezione dei Rizzi, due più anziani che però ci parvero come degli intrusi. Trascorremmo le ore della notte chiacchierando a bassa voce, facendo ipotesi sui rischi che stavamo correndo e, quindi, di quanto coraggiosa e splendida fosse la nostra missione, di come lo Stato, i poliziotti fossero assenti e se i fascisti, dal loro covo lì appresso, avessero organizzato una spedizione come avremmo potuto difendere l’incolumità del Segretario. Naturalmente ci sembrava singolare che la poderosa organizzazione del Partito avesse affidato l’incolumità del suo Segretario a due ragazzetti, un tranviere e un operaio, ed infatti nella nostra ingenuità non vedemmo ne gli uomini di scorta ne gli agenti della questura...venne mattina ed a conferma apparve una cameriera. Portava un vassoio con la colazione. Quando ci vide, assonnati e stralunati, riconoscendoci all’istante come addetti alla sorveglianza ed incolumità del Segretario, ebbe il dubbio che volessimo verificare l’assenza di veleni nel caffè. “Volete assaggiare?” chiese. Orbene, a quell’ora del mattino, quell’odore avrebbe indotto molti a rispondere “si”. Ma eravamo in quattro ed il caffè era quello del Segretario e si stava raffreddando. ”No, vada pure” le dissi assumendomi incoscientemente un’enorme responsabilità verso la Storia, nonché il temporaneo comando del manipolo della improvvisata security.
La cameriera bussò e Lui aprì.
I capelli più in disordine di come eravamo usi a vederli, piccolo, in un pigiama bianco con sottili righine nere, Enrico Berlinguer salutò e fece entrare l’emozionata cameriera e poi ci strinse la mano, ad uno ad uno, ed io per primo, con uno stirato sorriso di ringraziamento.
Per alcuni giorni assecondai il desiderio di non lavare “quella” mano.

Ecco, il ricordo è nitido come fosse ora, ed erano le sette e pochi minuti del 17 Giugno 1978.